giovedì 5 novembre 2015

VISIONI - Buzzard



Buzzard, ossia avvoltoio, titolo pazzesco e perfettamente descrittivo, è un film del 2014 firmato Joel Potrykus, alla sua seconda prova sulla lunga distanza filmica dopo Ape del 2012 (che ho messo, ovviamente, in watchlist).




Sin dai primi minuti, Buzzard si rivela per quello che è, un film estremamente intelligente, in cui ogni scelta è ponderata, e non solo per quanto riguarda l'aspetto registico, ma anche in produzione, montaggio, scrittura; sono evidenti i meriti per quello che è, senza dubbio, un prodotto a budget ridotto, eppure enormemente efficace nel trasformare i propri limiti in grossi punti di forza. E, per forza, bisogna iniziare da Joshua Burge, l'insopportabile Martin Jackitansky, un semiesordiente (e prossimo al nuovo film di Inarritu, quindi carriera lanciata) che va alla grande e che riesce in un ruolo impossibile; il protagonista della pellicola è irritante e odioso, completamente maleducato, dissociato, moderno, arrogante, anaffettivo, forse schizofrenico. Le inquadrature sono infinite, eppure giustificate, mai noiose, mai oltre il limite; anche se il ritmo può sembrare lento, è senza dubbio una scelta interessante e obbligata, il tempo di Martin è anche il nostro, la sua incapacità di concentrazione è la nostra, la risposta al nostro bisogno di velocità e spazio e trama. Ecco, dovessi fare un paragone e leggo in rete che gente lo paragona a Napoleon Dynamite (?, non per il film, ma per l'assenza totale di punti in comune), trovo Buzzard molto simile a The Comedy, il mezzo capolavoro di Rick Alverson.




Buzzard risulta molto influenzato dallo stile tipico delle sitcom, forse The Office, ed anche dagli stilemi del mumblecore, ma forse il collegamento è esagerato, non tanto per differenze d'età o di ambientazione quanto per la distanza tra i mood e le sensazioni che genera nello spettatore. Buzzard è, infatti, un crescente e insuperabile incubo, senza alcuna sosta, e prepara lo spettatore al climax finale sin dall'inizio della seconda parte del film, ovverosia la fuga di Marty a Detroit e l'inizio del vero e proprio disorientamento nella realtà. Ci sono, nel corso dell'esperienza filmica, scene indimenticabili in quanto fastidiose, in quanto stupide, in quanto vere: su tutte quella del tapis roulant e le patatine, a cui partecipa anche il regista stesso, nel ruolo dell'amico, anzi del work friend di Martin, e quella della cena col piatto di spaghetti da 20 $, prolungata allo sfinimento, intollerabile, inqualificabile, pazzesca. La perdita del senso di attaccamento alla realtà da parte di Martin ha, ovviamente, il suo apice nella corsa finale, liberatoria e ridicola allo stesso tempo; la conclusione vera e propria del film ci dice "ma chi è il vero Marty e dove sta andando?" in un modo forse non troppo originale e facile, ed è parecchio più debole della vera e propria corsa. Ultimo cenno al tema nascosto e allo stesso portante del film: l'impossibilità per l'uomo parte del sistema capitalistico di stringere veri legami affettivi o consolidare i propri legami parentali; insomma, quasi a dirci: si è tutti da soli e contro ogni altro essere umano. E chi non ce la fa cade, e la carcassa è per gli avvoltoi.

7,5

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